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La Suprema Corte di Cassazione, con sentenza del 6 novembre 2018, ha annullato la sentenza di assoluzione dei 5 ammiragli della Marina Militare emessa il 16 marzo 2017 dalla Corte di Appello di Venezia.
Gli ammiragli erano accusati dell’omicidio colposo di due marinai deceduti rispettivamente nel 2002 e nel 2005, a Padova, a causa di un mesotelioma pleurico causato dall’esposizione all’amianto sul luogo di lavoro, cioè sulle navi militari.
I reati ascritti riguardavano:
- l’omessa informazione sui rischi corsi dai marinai per l’esposizione a materiali contenenti amianto presenti nella destinazione di servizio;
- la mancanza di dispositivi di protezione individuale;
- l’assenza di misure idonee atte a contenere la dispersione di fibre di amianto sul luogo di lavoro.
La sentenza di primo grado del Tribunale di Padova
Nel 2012, in primo grado, il Tribunale di Padova aveva assolto gli imputati per l’impossibilità, secondo i giudici, di individuare le responsabilità penali degli imputati.
I giudici rilevavano infatti la difficoltà di stabilire l’esatto momento temporale dell’induzione della malattia.
Inoltre il Tribunale, dopo una disamina della letteratura scientifica a riguardo, dichiarava non dimostrato il nesso causale per le esposizioni successive a quella di innesco, sebbene riconoscesse la loro importanza quanto alla riduzione della latenza della malattia.
La sentenza della Corte di Appello di Venezia
La Corte di Appello di Venezia, con sentenza del 14 luglio 2014, pur ritenendo configurabile il reato di omicidio colposo per gli ammiragli della Marina Militare per l’omissione delle tutele di sicurezza dei lavoratori, assolve gli imputati per intervenuta prescrizione dei reati.
Nell’adottare il provvedimento la Corte esclude l’applicabilità delle aggravanti relative alla violazione delle norme di sicurezza e igiene del lavoro previste da D. P. R. n. 303 del 1956, che avrebbero allungato i tempi della prescrizione stessa.
Infatti “esse non trovano applicazione in relazione al lavoro a bordo del naviglio di Stato”, come previsto dell’art. 20, comma 2 della legge n. 183 del 4 novembre 2010, cd. collegato lavoro.
Il primo annullamento della Cassazione
La Quarta Sezione penale della Cassazione ha tuttavia annullato la prima sentenza della Corte di Appello di Venezia in quanto i giudici di secondo grado:
[…] non si erano confrontati con la richiesta della Procura generale, pure richiamata in sentenza, di prendere in considerazione il complesso dell’attività lavorativa prestata da [omissis], non potendo la clausola di esenzione introdotta dal legislatore del 2010, da interpretare in senso restrittivo, essere riferita anche all’attività prestata a terra (dunque non solo sui navigli) da parte dei lavoratori.
Inoltre i giudici di legittimità annullavano la sentenza impugnata per altre due motivazioni:
- la mancanza di un approfondimento quanto all’effetto acceleratore delle cosiddette esposizioni successive alla prima e alla loro incidenza sul nesso causale fra esposizione ed evento mortale;
- la presunta inapplicabilità, secondo la corte lagunare, delle aggravanti previste dall’art. 2087 del Codice Civile, che escludeva in termini apodittici che il datore fosse equiparabile all’imprenditore.
Il secondo giudizio della Corte di Appello di Venezia
Il secondo pronunciamento della Corte di Appello di Venezia, nel 2017, ha tuttavia ribadito l’inutilità di un’ennesima indagine peritale quanto all’accertamento dell’effetto acceleratore delle esposizioni successive alla prima.
Secondo la Corte infatti, non ci sarebbe consenso nella comunità scientifica quanto alla rilevanza delle esposizioni successive alla prima (quella dell’induzione) nell’accorciamento della latenza della malattia.
In questo senso la Corte ha ritenuto corretta l’impostazione della prima sentenza del Tribunale di Padova del 2012. La sentenza aveva assolto gli ammiragli della Marina Militare imputati nel processo.
Il nuovo annullamento della Corte di Cassazione
Le motivazioni dell’annullamento della sentenza di assoluzione della Corte di Appello di Venezia da parte della Corte di Cassazione, nell’udienza del 6 novembre 2018, sono state depositate pochi giorni fa (Terza Sezione Penale, sentenza n. 11451 del 2019).
Per la Cassazione, la Corte territoriale non si sarebbe “uniformata ai criteri interpretativi fissati dalla Corte di legittimità”.
Si legge infatti nella sentenza:
[…] nella vicenda in esame, la Corte di appello ha sostanzialmente eluso le direttive ermeneutiche fissate nel giudizio di legittimità, […] la questione demandata alla Corte territoriale era quella di approfondire, ‘anche con l’ulteriore ausilio di esperti qualificati e indipendenti’, la questione se l’esposizione prolungata dei lavoratori, in assenza di strumenti di protezione individuale e senza l’adozione delle misure di riduzione delle polveri, possa aver inciso anche solo sul tempo di latenza o sul decorso della malattia, con particolare riferimento alle lavorazioni a terra, per le quali non operava la clausola di esenzione ex lege n. 183 del 2010.
La Cassazione sottolinea come la diversità di opinioni scientifiche sollevata dalla Corte di Appello quale elemento assolutorio non esimeva comunque la Corte stessa dal condurre tale indagine.
A maggior ragione poiché la prima sentenza stessa della Corte di Appello di Venezia aveva già ribaltato le motivazioni della sentenza di assoluzione di primo grado.
In essa veniva dimostrata l’esistenza del nesso causale fra esposizione all’amianto e mesotelioma pleurico insorto nei due marinai nonché dell’effetto acceleratore provocato dalle successive esposizioni.
Infine la Cassazione rileva l’omissione, da parte della Corte di Appello, di una pronuncia su uno dei temi sollevati dalla Corte di legittimità, relativa all’applicabilità dell’art. 2087 del Codice Penale, rispetto all’equiparazione tra datore di lavoro e imprenditore.
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Crediti: immagine di Dawid Skalec, concessa con licenza CC BY-SA 3.0, da Wikimedia Commons. Modificata (ritagliata). Ridistribuita con la stessa licenza.
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