La Cassazione, con sentenza della Sezione Lavoro (n. 15165, 2019), ha confermato la condanna di risarcimento ai familiari, emessa nel 2014 dalla Corte di Appello di Roma, per la morte per mesotelioma peritoneale di un ex dipendente delle Ferrovie dello Stato, ora Rete Ferroviaria Italiana.
L’azienda di trasporti dovrà risarcire i familiari dell’uomo, deceduto nel 2006, con un indennizzo di circa 750.000 euro.
La sentenza di condanna della Corte di Appello di Roma
Nel 2014 la Corte di Appello di Roma aveva riformato la sentenza di primo grado. Questa aveva escluso la prova di una esposizione pericolosa all’asbesto come causa del mesotelioma peritoneale insorto nel dipendente.
Il Tribunale di merito invece, sulla base della disposta Consulenza Tecnica d’Ufficio e del riconoscimento della rendita ai superstiti da parte dell’INAIL, aveva accertato il nesso causale fra l’esposizione ad amianto sul luogo di lavoro e la malattia del lavoratore.
Il dipendente aveva infatti svoltole mansioni di aggiustatore meccanico, a contatto con le carrozze ferroviarie coibentate in amianto, in particolare fra gli anni 1966 e 1973, lasso temporale compatibile con la latenza media del mesotelioma (circa 40 anni).
I motivi del ricorso in Cassazione ed il respingimento da parte della Cassazione
Rete Ferroviaria Italiana è ricorsa contro la sentenza di condanna della Corte di Appello di Roma con le seguenti motivazioni, per cui la Corte territoriale:
- avrebbe impropriamente dato seguito a nuova Consulenza Tecnica d’Ufficio nonostante la carenza di allegazioni e prove sulle mansioni svolte dal lavoratore fra il 1966 ed il 1973 (artt. 414 e 421 Codice Procedura Civile ed art. 2697 Codice Civile);
- avrebbe erroneamente applicato le norme sulla responsabilità di omesse tutele di sicurezza relativamente a mansioni non accertate e solo presumibilmente in carico al lavoratore (artt. 115 e 116 Codice Procedura Civile ed artt. 2697 e 2087 Codice Civile).
Le decisioni della Cassazione
La Cassazione ha respinto entrambi i motivi del ricorso, sottolineando come la suprema Corte sia chiamata a giudicare i vizi di legittimità e non le questioni di merito. I ricorsi infatti
non possono trovare accoglimento in quanto, nonostante la veste formale che denuncia violazioni di legge, oggetto di critica è la valutazione del materiale probatorio operata dal giudice di merito, finalizzata ad incrinare l’accertamento di fatto da questi svolto, proponendosi, dunque, una diversa ricostruzione storica dei fatti, non consentita in sede di legittimità.
La Cassazione ha ribadito inoltre che
la sentenza di merito […] ha ritenuto dimostrata la nocività delle mansioni che, come si desumeva anche dagli elementi documentali esaminati dal CTU, relativi a lavorazioni simili ed a certificazioni ed accertamenti tratti dalla banca dati dell’INAIL, comportavano il contatto con l’asbesto, che ricopriva le superfici ove si svolgeva il lavoro del de cuius […].
Dunque, la Suprema Corte ha confermato le responsabilità dell’azienda relativamente all’omissione delle tutele di sicurezza sul lavoro di cui all’art. 2067 del Codice Civile. Ha inoltre ribadito come la nocività del materiale fosse già nota dagli anni 60.
La Cassazione ha inoltre riconosciuto il nesso causale fra il mesotelioma peritoneale, che ha comportato il decesso del lavoratore, e l’esposizione ad asbesto sul luogo di lavoro.
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Crediti: foto di maxsanna su pixabay.com. Modificata (ritagliata). Concessa e ridistribuita con licenza CC0 Creative Commons.
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